Spopolamento e abbandono: parole che risuonano con forza nelle aree montane, pedemontane e nelle valli più interne della nostra Penisola. Fenomeni che, da decenni, assumono contorni cronici, mentre una generazione dopo l’altra esporta competenze, energie e sogni verso le città. Se va bene, in Italia; troppo spesso, altrove. Max Weber affermava che “l’aria della città rende liberi”. Ma oggi, a quale prezzo? Quali costi personali, sociali e comunitari stiamo pagando per questa libertà?
Sono domande retoriche solo in apparenza. Perché, in realtà, attendono risposte politiche chiare. Risposte da chi, ogni giorno, lavora sul territorio e nelle istituzioni per invertire la rotta.
A livello europeo, nazionale, regionale e locale, sono stati messi in campo strumenti e strategie: finanziamenti mirati, co-progettazione, accompagnamento, incentivi all’innovazione sociale. Obiettivo: restituire dignità ai borghi, rivitalizzare le aree interne, valorizzare quelle identità che rischiano di svanire nel silenzio dell’abbandono.
L’Italia appenninica e il Mezzogiorno, in particolare, stanno affrontando una nuova ondata migratoria. Una diaspora silenziosa che genera povertà, lascia inutilizzate risorse e segna un progressivo abbandono del territorio. La Calabria non è esente: secondo le proiezioni, da qui al 2050 la popolazione regionale calerà di oltre 700 mila persone. Un dato drammatico, che deve interrogarci.
Il futuro delle aree interne si costruisce su due assi fondamentali: trattenere e attrarre. Trattenere chi è rimasto. Attrare nuovi abitanti, nuove energie, nuovi sogni. Ma come? La risposta è duplice: lavoro e servizi. E non in astratto, ma nella loro declinazione concreta e quotidiana. Negli ultimi anni, due grandi strategie nazionali hanno posto le basi per un cambio di paradigma: la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La prima mira a contrastare il declino demografico assicurando accessibilità ai servizi essenziali, opportunità di reddito e tutela del territorio. Il secondo, con un respiro più ampio, punta alla digitalizzazione, alla transizione ecologica e all’inclusione sociale, agendo anche sulla riduzione dei divari territoriali, generazionali e di genere.
Ma le risorse, da sole, non bastano. Serve visione. Serve partecipazione. Serve una regia politica capace di pensare in termini di ventennio, non di tornata elettorale.
Il termine “aree marginali” spesso ritorna nella letteratura tecnica. Ma marginali rispetto a chi? Alle città, certamente. Ma non per valore. Ridurre la marginalizzazione geografica significa prima di tutto combattere l’emarginazione sociale. E questo si fa con i servizi. È qui che inizia la vera battaglia contro l’abbandono.
Restare o tornare non può essere un atto eroico, né una scelta obbligata. Deve diventare una possibilità reale. Per questo servono servizi minimi garantiti e opportunità lavorative. Perché non c’è lavoro senza servizi, e non si resta senza dignità.
Dare valore economico ai borghi significa puntare sulle vocazioni territoriali: agricoltura biologica, filiera corta, artigianato, trasformazione locale dei prodotti. Significa sostenere l’ospitalità diffusa, promuovere marchi di qualità territoriale, incentivare nuove forme di cooperazione tra piccoli produttori. Ma significa anche fare turismo in modo responsabile, rigenerare le pratiche edilizie tradizionali, tutelare i paesaggi, valorizzare le tradizioni silvo-pastorali. È da qui che passa la rinascita, è qui che si crea una nuova economia locale.
L’abitare nei borghi deve diventare premiante. Serve una fiscalità di vantaggio, incentivi alla natalità, strumenti per sostenere la residenzialità, soprattutto giovanile. E contemporaneamente, bisogna garantire l’accesso ai diritti fondamentali: sanità di prossimità, scuola di qualità, reti di trasporto efficienti, banda larga e servizi digitali.
Una nuova stagione dei diritti di cittadinanza nei piccoli comuni non è più rinviabile. Ma richiede un cambio di paradigma: non più politiche per categorie, ma politiche per relazioni. Quelle familiari, di vicinato, amicali. Le reti informali sono la vera infrastruttura sociale delle aree interne.
Il futuro passa dal protagonismo delle comunità. Coinvolgimento, ascolto, dialogo. Non bastano piani calati dall’alto. Serve co-progettazione tra istituzioni, imprese, cittadini. Serve una cultura del bene comune che sappia unire le forze vive di ogni territorio: chi produce, chi educa, chi cura, chi immagina.
La Calabria ha un patrimonio relazionale e culturale immenso: legami affettivi forti, senso di appartenenza, resilienza. Un capitale umano spesso inespresso, ma pronto a rigenerare le radici profonde della nostra terra.
Le risorse oggi ci sono. Tocca a noi – amministratori, cittadini, operatori sociali ed economici – attivare percorsi virtuosi. E farlo insieme, in nome di una visione chiara: restituire centralità alle aree interne e costruire un’Italia che non dimentica i suoi borghi
Antonio Mancuso
FIE Calabria